A CURA DI LUDOVICA PALMIERI E MASSIMO SCARINGELLA
Sette opere. Grandi, pesanti, fisiche. Figlie di un corpo a corpo dell’artista con le tele. Dei lavori sofferti, nati dall’osservazione della realtà, da una “storia vera” appunto. Eppure nel loro essere, aprono ad una dimensione altra, parallela. Lontana dalla concretezza e dalle convenzioni del reale.
Il punto di partenza è un mucchio di ramoscelli, ormai secchi, notati dal pittore nel suo cortile, “una natura domestica” per usare le sue parole. In realtà, di natura c’è ben poco… i ramoscelli, semmai, sono un ricordo della stessa. Una natura morta che, grazie al gesto artistico di Nicola Rotiroti, non solo riprende vita ma diventa protagonista, immanente e preponderante, fino ad occupare l’intero spazio delle tele, come a voler inglobare l’elemento umano.
La natura di Nicola Rotiroti ha, dunque ben poco di “naturale”, ancor meno di domestico. É inospitale, psichedelica e minacciosa. La gamma cromatica, dai colori acidi e freddi, con una tavolozza che ricorda le pale d’altare manieriste più di Pontormo che di Rosso Fiorentino, sembra costruire una barriera, che preclude lo sguardo e l’ingresso al visitatore. Poi. Il vuoto.
Mentre l’occhio scivola sulla tela, per esplorarne tutti gli anfratti, improvvisamente si aprono dei varchi. Degli spazi vuoti, come voragini o passaggi. Ingressi verso un’altra dimensione che creano, un senso di vertigine e spaesamento nello spettatore. Impossibile non pensare al magico buco nero che portò Alice nel Paese delle Meraviglie. Sebbene qui il discorso sia diverso perché, l’innaturale vuoto che si apre nel quadro, rimanda ad una realtà digitale più che naturale. E questa ipotesi è confermata da un’affermazione dell’artista che, per descrivere queste pause nel tessuto pittorico, parla di “Vuoto indotto. Come se tutti gli esseri umani siano stati contemporaneamente abbagliati, conservando poi sulla retina la memoria di quella luce così forte da far sparire il resto.”
Questo elemento di sospensione del tessuto pittorico che è presente, come una costante, in tutte le opere, si allarga gradualmente, fino a diventare preponderante in Migrante, uno dei lavori in bianco e nero.
Nelle opere a colori, che sono state realizzate prima, inizialmente “il vuoto” appare in modo timido, per poi diventare sempre più marcato. E, dato che il vuoto, si sa, non esiste in natura, anche per Nicola Rotiroti il vuoto non corrisponde alla tela lasciata allo stato di preparazione: un grigio acrilico ottenuto attraverso la miscelazione di diversi colori, ma ad una superficie applicata sopra la tela, con la tecnica del collage che amplifica e ispessisce questa dimensione di vuoto. Come se diventasse una cassa di risonanza dell’opera stessa; un corto circuito nella trama pittorica che, effettivamente, rimanda a qualcos’altro. Ecco, questo qualcos’altro per l’artista è il mondo virtuale, il Metaverso che lui, poco affine alla tecnologia, ha faticato ad accettare e, dunque, percepisce come una minaccia all’umano ed, in particolare, a quello stato contemplativo che è tipico degli esseri umani.
Le sette opere di “Tratto da una storia vera” possono leggersi, dunque, anche come una critica al Metaverso, inteso come metafora dell’innovazione a tutti i costi, come ricerca del progresso a scapito dell’umanità. Le opere di Nicola Rotiroti, artista che per sua stessa ammissione ha faticato molto ad adeguarsi alla “rivoluzione tecnologica”, al di là dell’apparenza, non hanno nulla di digitale e sono frutto di un lavoro tutto analogico, lento, manuale. Fatto di studi preparatori, tentativi, ripensamenti e riflessioni; di colori ad olio che impiegano più tempo ad asciugarsi e richiedono maggiore pazienza e consapevolezza.
E se, nel suo insieme, la mostra apre le porte a una realtà parallela, virtuale, in cui ognuno può trovare dei riferimenti propri; i titoli delle opere, apparentemente incomprensibili e totalmente slegati dal contesto, aprono una finestra sul mondo inconscio dell’artista, la cui pacatezza nel lavoro si contrappone all’incessante, frenetico movimento dei suoi pensieri che, nella fase di creazione artistica si focalizzano o, per meglio dire, si condensano sotto forma di parole chiave che, in maniera ossessiva, come un mantra, lo accompagnano fino alla conclusione del lavoro. Queste parole sorgono nella mente del pittore in maniera del tutto casuale, a partire da discorsi, canzoni o letture affrontati in relazione di prossimità fisica o concettuale con l’opera stessa.
“Frasi che gli tornano in mente in modo martellante, continuo, incessante.”
Si passa dal primo, in ordine di realizzazione che reca come sottotitolo “Mai pace” a “Paolo Uccello” per arrivare al terzo “Mancano le mezze tinte”. L’ultimo quadro colorato prende il nome da una vecchia canzone neomelodica napoletana di Nino D’Angelo “Pop-corn e patatine”, mentre le opere in bianco e nero si chiamano “Migrante” l’una e “Staedtler 2” e “Staedtler 3” le altre due che prendono il titolo dalla marca di pennarelli utilizzati dall’artista per realizzare le tre opere monocrome. “Migrante” è l’unica opera che, oltre a rappresentare il vuoto, lascia largo spazio a quello che nella mia ottica potrebbe essere un orizzonte. Lo spazio della tela che, voglio immaginare, rappresenti una speranza o, quantomeno, una possibilità di scrivere il futuro in modo diverso.
Ludovica Palmieri
Il mistero della creazione artistica è come il mistero della nascita naturale. Una donna può amare, desiderare di diventare madre; ma il desiderio di se stessa, per quanto intenso, non può essere abbastanza. Un bel giorno lei sarà una madre, senza un preciso avvertimento su quando è successo. Allo stesso modo un artista, vivendo, conserva in sé tanti germi di vita e non può mai dire come e perché, in un dato momento, uno di questi germi vitali si inserisce nella sua fantasia per diventare una creatura vivente in un piano di vita superiore alla mutevole esistenza quotidiana (Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello).
I ruoli molto diversi che l’arte e i suoi attori hanno ricoperto nel corso della storia, con la loro crescente autonomia progressiva di funzioni e spazi sociali, ci hanno portato a dimenticare la natura etica della pratica estetica. Ma in un mondo percepito come in grado di crisi sempre crescente, molti artisti sentono l’obbligo inevitabile di recuperare quella natura, manifestando un atteggiamento nei confronti dell’arte e della società pienamente responsabile, e anche perché no, salvatore.
Fra gli artisti contemporanei non molti si riferiscono direttamente alla Natura, ma quelli che lo fanno dimostrano generalmente una visione assai più intima che reale. Affermano perlopiù la libertà di non costringersi a nessuno stile o linguaggio, muovendosi per il mondo attraverso idee, occasioni e immagini che hanno soffiato in certi momenti energia alle proprie esperienze e principalmente al proprio io. Queste visioni naturali hanno peso e presenza: ci impattano e sorprendono; sono vive, occasionalmente diventano focolaio di scaglie di simboli e allegorie; sono povere ma indiscutibilmente seduttrici, diventando il nostro universo intimo e morale.
Nicola Rotiroti, in questo grande ciclo di lavori che va sotto il titolo “Tratto da una storia vera”, parte dall’osservazione di alcuni elementi naturali accumulati casualmente nel giardino del proprio studio (rami, foglie, cortecce) riconducendo sulle grandi tele la narrazione personale di questi elementi. Come dice il ritornello di una nota canzone di Jarabe de Palo “Dipende, da che dipende? Da che punto guardi il mondo tutto dipende”. In questo caso l’artista non si occupa della nostalgia né del ricordo; non entra in rivalità con la realtà fotografica, né si chiede con che forma rappresentare la naturalezza. L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. (Paul Klee)
Lavora senza aderire a nessun neo “ismo” per allacciarsi al realismo, al simbolismo o all’impressionismo; evoca però il senso di meraviglia e di mistero davanti al mondo del visibile. Questa straordinaria serie di opere ci colpisce per la sua saturazione visuale: un sopraccarico d’immagini che ci chiude nei cicli naturali di nascita, decadenza e ringiovanimento; sono cicli nel quale la vita risorge dalla putrefazione. La bellezza delle immagini ci apre la strada attraverso un caos primordiale che lascia impantanato l’osservatore. La scena generale ci circonda con una presenza fisica, insieme a un palpabile senso potenzialmente visionario che forza a guardare attraverso i voluti vuoti monocromi; sono porte virtuali che ci introducono ai misteri della luce naturale e a rivedere la nostra memoria. Presi dai dettagli, c’imbrogliamo nei tronchi e nei rami che - con forza - spingono verso l’alto. Nel bel mezzo della tabula rasa, sentiamo senza dubbio i segnali di una energia indomita che respinge qualunque atto finale di resa: la Natura è dolorosa, caotica e prepotente ma, allo stesso tempo, solida, prolifica e versatile. Questi sette lavori di Nicola Rotiroti invitano chi li osserva ad attraversare un paesaggio interiore, dove natura, creazione artistica e poesia si intrecciano, evocando quel carattere apparentemente sfuggente degli elementi naturali. “La natura dell’arte è di far vedere qualcosa che prima non si conosceva sia nella realtà che ci circonda che in quella che è dentro di noi, noi siamo nella natura, siamo natura, anche i nostri pensieri quindi sono parte della natura, nascono da stimoli naturali che sono la luce, una struttura di crescita vegetale, un contrasto di colori naturali, i papaveri nel grano, il vento nella pioggia; c’è quindi un’arte visiva che dà corpo e colore ad un pensiero estetico che naturalmente era invisibile nella mente dell’autore, così questa forma d’arte fa vedere anche agli altri questo aspetto della natura” (Bruno Munari, “arte e natura” 1983).
Il loro lavoro, in cui si parla di continuità e trasformazione, trasforma in un modo viscerale l’arte in una funzione di rinascita.
Massimo Scaringella
L’esperienza retinica e psicologica di trovarsi immersi fra grandi tele sulle quali sono dipinte cataste di rami in gran parte spezzati che formano una rete fittissima, entro la quale si aprono spazi di vuoto mutevoli per grandezza e forma, è inquietante. L’inquietudine è lo stato d’animo che suggerisce questa grande, unica minacciosa onda di pittura che Rotiroti rovescia su di noi. Non è una foresta, come potrebbe sembrare a tutta prima, non è lo sforzo di rappresentare naturalisticamente un ampio brano di macchia mediterranea. Non sono naturalistici i colori, non lo è la fitta rete dei rami che si intrecciano disegnando una trama improbabile e disfunzionale. Non lo sono le incursioni di bianco volutamente arbitrarie, illogiche, spiazzanti.
La pittura di questo artista, che ci ha abituato a qualsiasi sorpresa, pur essendo espressione di un grande virtuosismo, non sfoggia sé stessa, non si esibisce in uno sterile spettacolo di autocompiacimento. È piuttosto un’operazione mentale, figlia di un disagio. Non un disagio occasionale, tuttavia. E nemmeno puramente individuale, frutto di una singola nevrosi o di un dolore. Le ampie superfici vegetali di Rotiroti sembrano alludere a un malessere collettivo. A una fragilità di cui ciascuno di noi è parte. La storia vera da cui è tratto l’azzardo dell’autore è una storia di tutti. Sembra parlare dei duecentomila morti per la pandemia. Sembra parlare delle cataste di cadaveri delle guerre dei secoli e di quella, terribile, che anche in questo momento falcia vite e ammucchia rovine a poca distanza da noi.
A me sembra che l’arte di questa creatura gentile e insofferente vada al di là della perizia tecnica che, pure, esprime e che stordisce. Lo è perché entra in sintonia con un tratto connotante della condizione umana normalmente trascurato. Dell’uomo si narrano i trionfi e si cerca di celare le miserie. La storia che si racconta è quella scritta dai vincitori. E il senso comune, chiave di lettura dei fatti correnti, non è mai casuale, ma espressione di un magma di interessi. Il senso comune vincente è quello dei gruppi di potere vincenti. Oggi esso tende ad occultare la fragilità e l’angoscia delle quali siamo intrisi. Un ottimismo consumistico rassegnato e imbelle deve per forza permeare le nostre vite. E non c’è spazio per il “pessimismo della ragione”.
Non c’è spazio per una riflessione sul senso del nostro esistere. Sulla natura stessa della nostra caducità. Sul carattere ontologico del nostro malessere e sulla sua stessa indispensabilità entro la logica di un divenire che non metta in discussione la naturalità della condizione umana. Questa condizione è oggi colpevolmente rimossa. E Rotiroti denuncia questa rimozione, rinchiudendoci dentro un microcosmo claustrofobico che sembra inaugurare un espressionismo di tipo nuovo, più mentale che legato alla deformazione dei volti e dei corpi.
Questo autore, nel pieno della sua maturità, è totalmente contemporaneo perché, a differenza dei molto più numerosi colleghi post-contemporanei, ancora si interessa della realtà così come lui la osserva. E della realtà ci racconta i tratti che fanno da spunto alla rappresentazione dell’ostacolo che interdice la vista. Alla mancanza di punti di riferimento su quei muri di rami spezzati. All’inevitabilità di incursioni che tendono a sostituirsi alla natura, come fa spesso la tecnologia rispetto al naturale scorrere delle relazioni umane consapevoli. Ecco perché la grande mostra di questo autore è sfidante. Non solo per i grandi formati delle tele che raccontano del coraggio di chi non vuole risparmiarsi. Ma per il coraggio, più grande ancora, di rimanere ancorato a terra, al cospetto della difficoltà di far crescere le proprie radici.
Alla fragilità naturale, e “bella” per certi versi, che caratterizza gli uomini e le donne, oggi, si aggiunge una fragilità artificialmente indotta che gli uomini e le donne vuole dominare. È per questo che gli sfruttati non si sentono più tali, non si ribellano più, accettano per lo più il proprio destino, riconducendo a sé stessi le ragioni della propria afflizione. O, più spesso, vivono in una condizione di tossica ipoestesia.
La pittura in questo è potente e incontenibile: nella capacità di scrivere trattati senza bisogno di carta e penna, o di carta e tastiera. Oggi Nicola Rotiroti, sequestrando il nostro sguardo, immergendoci fra le fitte superfici delle sue pareti vegetali, ci ha regalato un viaggio nella consapevolezza della condizione di tutti e di ciascuno. Che è fatta prima di tutto dei nostri limiti e, poi, delle condizioni che impediscono che essi si trasformino in occasioni di riscatto. Come è successo con la pandemia. Come sta succedendo con una guerra che rischia di trasformarsi in una apocalisse.
Roberto Gramiccia