Ho visto la prima opera di Silvia Iorio diversi anni fa, in una galleria del centro storico di Roma che credo non esista più. Era un monocromo di un blu denso e brillante, i cui riflessi metallici evocavano i movimenti di una veste bizantina e facevano intuire uno spazio segreto, oltre la superficie. Più tardi è stata l’artista a raccontarmi che mescola ai suoi colori polveri d’oro, scaglie metalliche, frammenti di meteoriti di cui possiede una collezione. In quel colore ricordo una certa ambiguità, che muoveva lo sguardo per sottrazione, oltre la materia: una sorta di spazio quantico che guardava come uno specchio innamorato al cielo stellato che si estende per anni luce oltre le nostre teste sognanti. Il microcosmo e il macrocosmo che piaceva tanto ai filosofi-maghi neoplatonici del nostro Rinascimento. Negli anni, le tele e le carte di Iorio si sono popolate di astri, di galassie, di codici e segni. Un progresso artistico che si è espanso per inflazione, come nella teoria cosmologica che vede l’Universo accelerare dopo il Big Bang, e, anzi, invece del «Grande Botto», l’agitazione dell’allora neo-verso assomiglierebbe più alla fluttuazione di una veste, ai cerchi formati dal lancio di un sasso in uno stagno di vuoto spazio-tempo.
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