Si può assegnare un momento preciso alla nascita del Moderno in arte: quando i pittori hanno scoperto che attraverso i pennelli si poteva non solo riprodurre il reale, ma anche esplicare l’irreale. Quindi far vedere l’invisibile. Non so se sia giusto definire le opere di Arianna Bonamore immagini, perché hanno una densità sconosciuta all’altra arte, quella che si appoggia al referente, al dialogo con il già visto. Vengono invece da un luogo impraticabile, indescrivibile, e portano i segni di un processo che avviene a strati. Queste opere ci appartengono perché rifiutano la leggerezza dell’immagine, e intrattengono traffici con una intima densità. Che sembrino moderne, a questo punto, pare una semplice casualità. Si soffermano, oltre il piacere, anche sul lungo processo che le ha generate. Ma, forse resistendo, ci lasciamo dialogare da queste opere offuscate da un eccesso di irraggiamento, che, peraltro, proviene da un luogo oscuro. Data la loro origine il loro destino è che appaiano scomode. Ma ciò che udiamo da loro non lo potremo ascoltare altrove, e l’esclusività è l’unico valore che non ha mai cercato approvazione. Le opere di Arianna Bonamore si intrattengono anche sui loro pallidi intermediari, quei fantasmi lignei che si offrono come canovaccio all’apparizione. Ci parlano di mani medievali che ancora non conoscono la velenosa magnificenza dello spettacolo, e si affidano al segno. Ma da queste oceanografie private si esprime l’unica ars. Il più duro, il più esigente, il più ostinato, l’unico amore possibile.
Paolo Aita